martedì 14 giugno 2016

Procedura esecutiva, cessione del credito e tempestività dell’eccezione




La sentenza in esame è relativa ad una vertenza in cui, in primo grado, il Tribunale di Napoli aveva statuito non applicabile l’art. 111 c.p.c. al procedimento esecutivo ed aveva reputato tardiva la costituzione del cessionario-esecutante in quanto avvenuta solo dopo l’eccezione sollevata dalla parte esecutata. Infatti, nel primo giudizio di opposizione all’esecuzione la ricorrente, che era assoggettata ad esecuzione forzata immobiliare (n. 223/93), aveva eccepito che non sussisteva il diritto dell’ente bancario cedente di procedere in executivs perché lo stesso aveva già ceduto il credito vantato verso l’opponente palesando, quindi, una carenza di legittimazione attiva in capo al creditore-esecutante rimasto provo del titolo esecutivo, ed evidenziando che a tale situazione poteva non supplire la società cessionaria - non solo per l’inapplicabilità dell’art. 111 c.p.c. al processo esecutivo - ma anche per essere intervenuta nel giudizio di opposizione all’esecuzione solo dopo il formale rilievo del vizio da parte dell’esecutata e la conseguente sospensione dell’esecuzione.







testo


Tale prima sentenza del Tribunale di Napoli (Tribunale di Napoli, V sezione civile, G.I. Dott. Scoppa sentenza n. 4940/03 decisa il 25.3.2003 e depositata in cancelleria il 22.4.03) è stata impugnata e la sentenza della Corte di Appello di Napoli in esame ha confermato il provvedimento di primo grado, ritenendo esatti i riferimenti ivi effettuati ai precedenti della Corte di Cassazione e, segnatamente, alla sentenza n. 9211 del 2001.

In particolare, il precedente della Suprema Corte (9211/2001) aveva stabilito che il secondo ed il terzo comma dell’art. 111 c.p.c. non sono applicabili in nessun caso al procedimento esecutivo, mentre se si potesse adattare il primo comma si dovrebbe soltanto desumere che la parte obbligata conserva il diritto di non vedersi esecutata da chi non è più titolare del diritto e quando questa eccezione è sollevata dall’esecutato prima della costituzione del nuovo acquirente del credito essa paralizza il procedimento che però potrà in ogni caso essere da questi riproposto.

E’ quindi opportuno procedere prima alla disamina del primo giudizio per poi analizzare quanto statuito dalla Corte in appello.

Nel caso in esame il Tribunale, in primo grado, aveva già precisato che la circostanza che la banca procedente aveva formalmente ceduto a terzi il credito aveva di fatto reso la banca stessa priva del titolo idoneo a procedere in executivis per far valere la pretesa azionata “al cui coattivo adempimento è correlato il procedimento di espropriazione forzata” specificando anche che “né a siffatta carenza di legittimazione del creditore istante, rimasto privo di idoneo titolo, può utilmente supplire la società cessionaria il cui intervento nel processo di esecuzione è intercorso soltanto in data 11 giugno 2002 dopo il formale rilievo del vizio da parte della debitrice esecutata e la conseguente adozione del provvedimento di sospensione della procedura non essendovi a quella data altri creditori, in grado di promuovere i singoli atti esecutivi”.

Giustamente il Tribunale nel precedente grado di giudizio aveva già precisato che il problema si pone proprio, “allorquando dell’intercorso trasferimento non sia reso edotto il debitore … in tal caso la vicenda successoria non è opponibile al ceduto e non assume rilievo processuale”.

Inoltre, l’art. 81 c.p.c. statuisce che “fuori dei casi espressamente previsti dalla legge nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui”. Quindi, nel caso in esame, non era possibile per il creditore originario continuare dopo l’avvenuta cessione del credito e sino alla data dell’opposizione la procedura esecutiva.

La legittimazione ad agire (“legitimatio ad causam”), come è noto, individua il soggetto legittimato a far valere in giudizio il singolo specifico diritto sostanziale e tale regola generale è desunta “a contrariis” dagli art. 81 e 69 c.p.c. ed è affermata anche dall’art. 24 I° comma della Cost., secondo cui, “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti”.

E’ la normale correlazione tra titolarità del diritto sostanziale e titolarità del diritto di azione.

In ambito processuale è quindi ovvio che solo ed esclusivamente chi è titolare del diritto è legittimato a farlo valere in giudizio (Proto Pisani).

Come si evince agevolmente, il Tribunale aveva quindi già ben spiegato non solo che chi ha ceduto il titolo non ha diritto a porre in essere altri singoli atti del processo esecutivo - che, a differenza del processo ordinario, è “ad impulso di parte” - ma anche che nella presente fattispecie l’intervento della cessionaria era inefficace ed irrituale, essendo avvenuto dopo che, in un momento processuale precedente, era stata tempestivamente sollevata l’eccezione dalla parte esecutata, che in quanto fondata aveva generato il provvedimento di sospensione della procedura: infatti non vi erano altri soggetti legittimati in grado di dare impulso ai singoli atti esecutivi.

Si deve ricordare, al riguardo, che nel procedimento esecutivo il presupposto per il quale un soggetto può dare impulso ad un singolo atto è la titolarità attuale in capo a tale soggetto del titolo azionato, titolarità che in un procedimento come quello esecutivo ”a compartimenti stagno” - cioè composto da singoli atti indipendenti tra loro - non può essere sanata in alcun modo se in quella precisa fase non era costituito il soggetto legittimato: il processo esecutivo è, infatti, strutturato in maniera tale da essere costituito come una sequenza continua di atti ordinati, assolutamente indipendenti, e cioè come una successione di subprocedimenti (cfr. Cass. 27.10.1995 n. 11178 : “Il processo esecutivo si presenta strutturato non già come una serie continua di atti ordinati ad un unico provvedimento finale secondo lo schema proprio del processo di cognizione finale bensì come un successione di subprocedimenti, cioè in una serie autonoma di atti ordinati a distinti provvedimenti successivi”.).

Il procedimento esecutivo è, quindi, formato da una serie di passaggi l’un l’altro autonomi che in caso di cessione del credito priva il dante causa del diritto di proseguire l’azione iniziata, essendo il successore l’unico soggetto ad avere un attuale interesse alla realizzazione coattiva del diritto.

Proprio in conseguenza della particolare struttura del procedimento esecutivo, appena ricordata, nella sentenza poi confermata in appello il Tribunale di Napoli aveva precisato appunto che “… il processo di esecuzione, in quanto volto all’attuazione del diritto consacrato nel titolo esecutivo, mentre è affrancato dal bisogno di collaborazione da parte del debitore, il quale è posto in posizione di mera soggezione … non può invece in alcun caso prescindere dall’impulso della parte che di quel diritto è titolare ed al cui soddisfacimento il processo è funzionale”, traendo da ciò la conclusione che non si può ipotizzare “la trasposizione in sede esecutiva del precetto di cui al primo comma del citato art. 111 c.p.c.” in quanto “l’attuazione coattiva di quell’obbligo” non può “concretamente avvenire in favore (e quindi nel patrimonio) di una parte che non è più legittimata a riceverlo sul piano sostanziale”, atteso che, ritenendo il contrario, si realizzerebbe “un assetto di interessi non più corrispondente alla realtà effettuale, con conseguente necessità per il cessionario di agire a sua volta (in via contenziosa e/o esecutiva) per incamerare la prestazione oggetto della precedente cessione, ove non gli sia rimessa spontaneamente dal cedente …” , ed aveva perciò concluso che il principio disciplinato dall’art. 111 c.p.c. “appare di per sé incompatibile non soltanto con quelle esigenze di economia processuale (attribuzione della somma al dante causa) ma anche con la struttura e la funzione stessa del processo esecutivo il quale non è certo predisposto in favore del debitore per consentirgli di liberarsi comunque della propria obbligazione (unico effetto riconducibile al forzoso trasferimento della somma nel patrimonio del cedente) ma costituisce anzi un mezzo offerto al creditore per la realizzazione, contro la volontà del debitore, della propria pretesa, e presuppone, quindi, quale condizione preliminare indefettibile, che colui che agisce quella prestazione abbia diritto a ricevere sul piano sostanziale”.

A maggior chiarimento del concetto, nella stessa sentenza del Tribunale di Napoli, si legge che “invero la citata disposizione di cui al primo comma dell’art. 111 c.p.c., nel prevedere che, se nel corso del processo si trasferisce il diritto controverso per atto tra vivi a titolo particolare, il processo prosegue tra le parti originarie, appare riferirsi precipuamente al processo contenzioso ove vi è effettivamente un diritto controverso. In sede esecutiva … non sussiste invece alcun diritto in contestazione ed il processo stesso si configura quale insieme coordinato di atti preordinati alla soddisfazione del creditore e non può quindi prescindere dall’impulso della parte che sul piano sostanziale di quel diritto è titolare” e “… in sede esecutiva l’attuazione della prestazione in favore di chi non ne è il legittimo titolare (e che del legittimo titolare verrebbe ad assumere la veste di sostituto processuale) varrebbe ad obliterare la efficacia stessa della cessione venendo la prestazione ad esser forzatamente eseguita nel patrimonio di un soggetto a favore del quale sul piano sostanziale, la medesima prestazione non potrebbe esser spontaneamente ed utilmente eseguita: evidenza, come detto, in palese contrasto con le ragioni stesse del procedimento esecutivo che mira a dare concreta attuazione ad una determinata pretesa proprio perché (ed in quanto) esistente sul piano sostanziale e non spontaneamente adempiuta dal debitore.”.

In conseguenza di quanto evidenziato circa la inapplicabilità del disposto dell’art. 111 c.p.c. al processo esecutivo il Tribunale, nel riprendere la Cass. n. 9211 del 2001, aveva quindi precisato che “in considerazione della cessione del diritto della cui esecuzione si tratta, in pendenza del processo esecutivo, la parte obbligata secondo il titolo ha diritto di far valere, attraverso la opposizione all’esecuzione, un proprio interesse a “non esser costretta a subire l’esecuzione del cedente che non ha più diritto a pretenderla” ed aveva conseguentemente accolto l’opposizione da questa proposta.

All’uopo la sentenza di primo grado correttamente aveva osservato che “la dissociazione tra titolarità ed interesse, che sottende la previsione di cui all’art. 111 c.p.c., non sembra pertanto compatibile con le esigenze proprie del processo di esecuzione che, in quanto volto all’attuazione coattiva della pretesa, presuppone la assoluta coincidenza tra soggetto agente e titolare del diritto. In tal caso di successione a titolo particolare nella titolarità del diritto azionato in executivis, la ulteriore prosecuzione del processo presuppone pertanto il concreto intervento dell’effettivo ed attuale titolare del diritto … rimanendo il dante causa sprovvisto di qualsivoglia legittimazione a proseguire nell’azione promossa (in tal senso, cfr. Tribunale Napoli 6 dicembre 1999, Fiscambi Money S.p.A. e altri c/.. G., nonché Tribunale Napoli 18 maggio 2002, B.A. e S. E. c/. Istituto Bancario San Paolo di Torino). ” e che l’intervento nella procedura esecutiva del cessionario del credito non valeva, nella specie, a sanare i vizi della procedura stessa, poiché “la cessione del credito costituisce dunque causa di arresto del processo di esecuzione”, dovendosi, al limite, la cessionaria costituire “prima che la questione sia formalmente sollevata o eccepita nel corso stesso del processo”.

A tale ultimo proposito, il Tribunale aveva infatti rilevato che: “in caso di formale opposizione dell’obbligato, che espressamente eccepisca la carenza del diritto del creditore procedente di agire in executivis per aver ceduto il proprio credito e non esser più titolare della posizione giuridica azionata, il processo stesso (in mancanza di altri creditori in grado di compiere singoli atti di esecuzione) perviene infatti ad una fase di paralisi che ne determina l’improcedibilità (e quindi la sua definitiva conclusione).” e, pertanto, “la opposizione proposta dalla L.S.R. per la parte in cui si contesta il diritto dell’Istituto Bancario San Paolo di Torino di proseguire nella azione esecutiva per aver ceduto il relativo credito, merita pertanto accoglimento con conseguente improcedibilità della esecuzione in corso, non essendovi altri creditori muniti di titolo esecutivo, utilmente intervenuti nel processo prima del dispiegarsi della evidenza causa di arresto.”.

In pratica attraverso la opposizione “la parte fa in tal modo valere un proprio interesse a non essere costretta a subire l’esecuzione coattiva della prestazione in favore di un soggetto che non ha il diritto di pretenderla” (Cass. n. 9211 del 2001), ed infatti dottrina e giurisprudenza – cfr. Cass. 24 gennaio 1964, n. 172 – sono concordi nel ritenere che, “persa .. la titolarità del diritto di cui la sentenza assicura la realizzazione coattiva, se la stessa parte tuttavia inizia l’esecuzione, l’obbligato può appunto opporle … che essa non è più legittimata a pretendere, di quel diritto, né la soddisfazione né quindi l’esecuzione forzata”.

Pertanto, il Tribunale in primo grado ha confermato il proprio precedente orientamento (cfr. sentenza 7 maggio 2001) statuendo quali sono gli effetti della successione a titolo particolare nel credito in pendenza della procedura esecutiva precisando, alla luce della Cassazione richiamata, in che termini va ravvisata la tempestività dell’intervento del cessionario (“… la parte obbligata sulla base di un titolo esecutivo, può proporre opposizione all’esecuzione per chiedere che sia accertato che l’altra non ha diritto a proseguire l’esecuzione forzata per avere, in pendenza del processo esecutivo, ceduto il diritto della cui esecuzione coattiva si tratta …”: Cass. n. 9211/2001; conforme, Cass. 24 ottobre 1975, n. 3532)”.

Appare, quindi, ovvio che anche tutti gli atti processuali compiuti precedentemente e successivamente alla cessione del credito sono da ritenersi nulli, in quanto posti in essere da un soggetto non più legittimato attivo della procedura e soprattutto non più creditore dell'istante.

E, quindi, la parte originaria che ha iniziato il processo esecutivo, una volta che ha ceduto il diritto oggetto di esecuzione non ha più alcun interesse giuridico specifico all’azione.

In pratica, nel caso di specie, è venuta a mancare la stessa legittimazione ad agire, mancando la condizione stessa dell’azione intesa come diritto di richiedere al giudice una qualsiasi decisione (cfr. sul punto Cass. 1751/1989 che stabilisce che “il requisito della legittimazione ad agire attiene alla stessa identità tra il soggetto che esperisce l’azione e quello a cui la legge riconosce il potere di agire in giudizio in ordine ad un determinato rapporto giuridico”; conforme sul punto anche Cass. 456/1982).

Deve, quindi, essere ribadito che l’art. 111 c.p.c. è inapplicabile al procedimento esecutivo che è un procedimento autonomo (cfr. La China nel testo specifico “l’esecuzione forzata e le disposizioni generali del codice di procedura civile”, Milano 1970, p. 361 e ss.; Lorenzetto Persico, in un altro volume specifico “la successione nel processo esecutivo”, Padova, 1983, p. 369 e ss.).

Del resto è palese che l’art. 111 c.p.c. si riferisce – come da precisa collocazione nel codice di rito – al processo di cognizione e non a quello esecutivo.

E’, infatti, chiaro che l’art. 111 c.p.c. non si può applicare al procedimento esecutivo, come sostiene la migliore dottrina (Lorenzetto Peserico, op. cit. pag. 370 ed anche Fabiani nel suo testo, che per altri ovvi motivi, è molto ben calzante al caso in esame “Mancata notificazione” a pag. 3363) poiché oggetto, petitum e situazioni soggettive del processo esecutivo sono nuove proprio in quanto ovviamente “oggetto del processo sarà, in seguito al trasferimento, la nuova situazione giuridica facente capo al successore”.

L’appellata sentenza del Tribunale di Napoli aveva anche sul punto precisato che occorre “l’intervento del cessionario non essendo sufficiente per la prosecuzione del processo la sola iniziativa del cedente il quale avendo dismesso la posizione giuridica soggettiva, al cui soddisfacimento è funzionale il processo di esecuzione, non può proseguire per la coattiva attuazione del diritto di cui non è più titolare”.

Proprio muovendo dai principi appena rammentati la Corte di Appello, nel confermare la sentenza di primo grado, ha ricordato il richiamato precedente della Cassazione (S.C. del 6.4.2001, n. 9211) precisando che “il Tribunale di Napoli — aderendo all’impostazione di cui alla citata sentenza del 200l - ha affermato che "in considerazione della cessione del diritto della cui esecuzione si tratta, in pendenza del processo esecutivo, la parte obbligata secondo il titolo ha diritto di far valere, attraverso l’opposizione all’esecuzione, un proprio interesse a non essere costretta a subire l’esecuzione del cedente che non ha più il diritto a pretenderla.” ed ha anche specificato ulteriormente sul punto che: “… invero, proprio la sentenza n. 9211 del 2001, nell’affrontare la questione, non solo ha chiarito i limiti entro cui può trovare applicazione la citata norma nel processo esecutivo, ma ha anche precisato che l’intervento del cessionario se effettuato dopo che il debitore ha contestato la legittimazione del creditore cedente, impedisce la prosecuzione del processo, fermo restando che tale arresto non priva il successore del diritto di iniziare ex novo il processo esecutivo. Sicchè, nel caso di specie, poiché al momento dell’opposizione (23.4.2002) la srl Credit Recovery - pur essendo subentrata al creditore originario - non era ancora parte del procedimento esecutivo che continuava su impulso di un soggetto che non aveva più legittimazione (avendo ceduto il proprio diritto di credito), l’opposizione proposta dalla debitrice L.S.R., che ha eccepito espressamente la carenza del diritto del creditore procedente di agire in executivis, ha determinato la improcedibilità del giudizio, cosi come avviene quando il bene pignorato risulti appartenere a soggetto diverso dall’obbligato, o quando risulti estinta l’obbligazione o inesistente l’obbligo del terzo. Ciò è la diretta e logica conseguenza delle esigenze e peculiarità del processo esecutivo che, in quanto volto all’attuazione coattiva della pretesa, presuppone l’assoluta coincidenza tra soggetto agente e titolare del diritto. La dissociazione tra titolarità ed interesse, che sottende la previsione di cui all’art. 111 c.p.c., non sembra - quindi - compatibile con il giudizio di esecuzione, tant’é che in caso di successione a titolo particolare nella titolarità del diritto azionato esecutivamente, la ulteriore prosecuzione del processo presuppone il concreto intervento dell’effettivo ed attuale titolare del diritto, rimanendo il dante causa sprovvisto della legittimazione a proseguire nell’azione promossa. Occorre, però, perché venga rimosso l’ostacolo di ordine processuale, che il predetto intervento operi prima che la questione sia formalmente sollevata o eccepita nel corso del processo stesso (v. da ultimo Cass. n. 4985 del 2004)”.

In altre parole il processo esecutivo è un procedimento “ad impulso di parte” nel senso che la parte creditrice-procedente è la sola legittimata a richiedere - in ogni singola fase del giudizio - che la vertenza stessa proceda, ma ciò presuppone necessariamente l’identità tra il soggetto agente ed il titolare del titolo azionato.

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